Il bambino e il matto

(una storia natalizia per bambini di ogni età)

Una palla bucata

All’inizio non lo avevo neppure notato. Ma quando la mia palla bucata rotolò goffamente fino alla sua panchina, mi accorsi della sua presenza. Immediatamente mi rivolse la parola:

“Ciao David”.

Rimasi sorpreso che conoscesse il mio nome e, senza rispondere al suo saluto (come un perfetto villano), restai a fissarlo incredulo.

“Che fosse un amico dei miei genitori? – pensai – Ma certamente non l’avevo mai visto prima.”

L’incontro

Era un grande vecchio severo. I lunghi e folti capelli bianchi, che un tempo dovevano essere stati biondi, andavano a confondersi con una altrettanto bianca e lunga barba che pareva bambagia. All’interno di quella “cornice” s’intravedevano soltanto i suoi piccoli occhi: due fessure dalle quali usciva uno sguardo penetrante che mi metteva in soggezione.

Una camicia a scacchi, dai toni sgargianti che non riusciva a mitigare la sua severità, copriva a stento un corpo poderoso e massiccio che faceva pensare più ad un boscaiolo che ad un pensionato. Mentre lo osservavo con un misto di timore e rispetto, e mentre nella mia testa cercavo inutilmente di confrontare quell’immagine con volti familiari, quella specie di Mangiafuoco incanutito mi rivolse nuovamente la parola:

“Non mi riconosci, Tavit? Eppure zono tanti anni, ormai, che mi scrifi!”.

La conoscenza

Dovevo aver assunto un’espressione tanto buffa, perché quel Bud Spencer di cent’anni scoppiò fragorosamente a ridere. La sua voce, prima non me ne ero accorto, oltre ad essere grave, profonda e cavernosa come si addice ad un “orso” par suo, tradiva un’inflessione straniera.

L’espressione del mio volto, con le sopracciglia aggrottate e la bocca spalancata, che tanta ilarità aveva provocato in quel personaggio, era giustificata dal mio stupore nell’udire le sue parole:

“Ma come – mi domandavo – io che per prendere in mano una penna e scrivere due righe faccio disperare sempre la mamma, avrei scritto da anni a questo vecchio pazzo che neanche conosco e che é per giunta straniero?!”

Come un nonno

Tornò nuovamente serio e, appoggiandosi con le larghe mani sulle ginocchia in modo da farsi più vicino, sospirò:

“Sai, siete rimasti in poki a scrifermi! Ed io, spesso, mi zento zolo”.

Solo in quel momento mi accorsi che quel vecchio poteva essere un nonno, un normalissimo e dolcissimo nonno con una gerla piena di chissà quante storie ed avventure da raccontare e con una inesauribile voglia di tenere sulle sue ginocchia qualche nipotino da incantare.

Senza accorgermi, mi ero avvicinato ed ora tenevo la mia mano tra le sue. Non poteva essere un boscaiolo, perché le sue mani, pure se grandi e vigorose, erano lisce e morbide come quelle d’un bimbo, abituate a lavori di precisione.

Il racconto

Quasi inconsapevolmente lo chiamai:

“Nonno, ma non hai dei nipoti?”.

“Oh, afefo tantoni nipotini che mi folevano bene; che la notte non dormifano pensando a me; che afefano gli occhi lustri e strillafano di cioia ogni folta che arrifafo…”

Nel racconto si eccitava, le sue gote paffute che sbucavano dal folto della barba diventarono rosse ed i suoi occhietti, che facevano capolino tra le folte sopracciglia, lampeggiavano come pietre preziose

“… Ma poi zono cresciuti – sospirò, guardando lontano – e non ne zono fenuti di nuofi!”

La caccia

Dopo una pausa, che a me parve un’eternità, tirò su col naso e se lo strofinò ripetutamente con la manica della camicia. Questa volta fui io a ridere di gusto e ad informarlo di non farsi mai vedere da mia mamma a pulirsi il naso in quel modo! Rise anche lui, quasi per scacciare lontano tristi pensieri.

Eravamo come fuori dal mondo ed il tempo era passato veloce, quando alcune voci concitate ci fecero trasalire. Il nonno annusò l’aria come avrebbe potuto fare un bisonte ferito che sente avvicinarsi il pericolo; con tono preoccupato mi confidò:

“Stanno arrifando, fengono a prendermi. Sai, pensano che io sia un po’ matto… Già – soggiunse in modo a me incomprensibile – non son più di moda!”

Il nascondiglio

C’era della rassegnazione nelle sue parole e a me fece una gran pena. Un po’ strano forse lo era, ma pericoloso non mi pareva proprio.

Quindi, senza por tempo in mezzo, gli strinsi la mano e dissi:

“Vieni nonno, di qua c’è un nascondiglio che neppure i miei amici conoscono: lo uso sempre quando gioco a guardie e ladri.”

Docile, leggero, quasi senza peso mi seguì, facendosi guidare da me fiducioso e bisognoso d’aiuto: lui, quella vecchia quercia, così grande e forte!

Nel nostro rifugio, quasi per sdebitarsi, mi canticchiò, in una lingua sconosciuta, una dolce melodia: sapeva di inverno, di neve, di pace, di… miele. Quando si spense l’ultima eco di voce, uscimmo e c’erano già le stelle:

“Va a casa ora – mi disse – ke mutty può essere in pena, e dà un kiss a tuo bruder Jacobo…”

Il dono

Si allontanò, con le mani in tasca ed il naso all’insù, quasi cercasse la rotta tra le costellazioni.

“Ciao nonno” ebbi appena il fiato di rispondere.

Mi girai a raccogliere la mia vecchia palla bucata, pensando che se conosceva anche mio fratello doveva essere proprio un amico di famiglia. L’avrei chiesto al babbo, ma… wow! la palla che avevo in mano era un vero e proprio pallone di cuoio, nuovo fiammante… I brividi corsero dalla punta dei miei capelli a quella dei miei piedi e mi ritrovai a parlare fra me e me a voce alta, impazzito anch’io:

“Ma allora, quel vecchio era…”

E una voce grave, profonda, cavernosa, con un accento nordico e tanta dolcezza mi chiamò di lontano:

“Ricordati Tavit, scrifimi ankora…!”.

Stefano Ricci

Nato a Siena nel 1950 è approdato nel '68 a Trento, dove si è laureato in Sociologia. Quella stagione di “contestazione globale” ha caratterizzato l'intera sua esistenza. Sempre impegnato in politica, nel Sindacato e nel volontariato si è poi ritrovato a misurarsi col mondo della salute mentale, anche qui da protagonista.

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