Diego Silvestri – psichiatra

Ho letto il libro Psichiatria da protagonisti, conosciuto gli autori e mi sto attivando per far conoscere la realtà descritta perché semplicemente è una pratica da conoscere.

Al di là delle tante belle cose presenti nel libro, da psichiatra voglio sottolineare un aspetto. Solo un aspetto fra i tanti che mi si sono affacciati.

Nei servizi di salute mentale ci sono i terapeuti. Il terapeuta è colui che cura. A volte guarisce, a volte si prende cura per tutta la vita di una persona. Non può esistere una visione terapeutica senza la ricerca in una persona, qualsiasi ella sia, delle sue risorse e capacità personali. Una banale guarigione da una qualsiasi malattia è sempre anche dovuta a fattori di protezione, di resistenza, di recupero, di una forza biologica presente nella persona che si ammala. Una malattia che si prolunga nel tempo, gli studiosi lo sanno, è dovuta al venir meno di questi fattori benevoli, immunitari, resilienti, eccetera.

Nella sofferenza mentale, sia essa reattiva e breve oppure “endogena” e prolungata, i fattori protettivi sui quali far leva dovrebbero essere i primi elementi sui quali lavorare per aiutare una persona a reggere il peso del dolore psichico. Questa semplice evidenza, cioè essere terapeutici focalizzandoci sulle risorse delle persone che scivolano in un disturbo mentale, non si traduce in una pratica con facilità.

La riflessione, ahimè amara, è che qualcosa impedisce di tradurre il semplice pensiero del concentrarsi sulle risorse delle persone che hanno bisogno di aiuto psichiatrico. Questo impedimento è legato alla stessa organizzazione e alla cultura dei servizi di salute mentale, della stragrande maggior parte di questi servizi, e dall’importanza che queste organizzazioni cosiddette terapeutiche attribuiscono allo psichiatra.

Da psichiatra ho assistito, negli ultimi decenni, al passaggio dalla figura di psico-farmacologo-terapeuta o psicoterapeuta farmacologo, teorizzata da qualcuno, al mero medico che sa eseguire un esame obiettivo in un servizio psichiatrico, sa prescrivere appropriatamente una Tac cerebrale, conosce gli effetti collaterali fisici degli psicofarmaci che prescrive, eccetera. Ho assistito all’impoverimento dell’attenzione sui fattori psico sociali a scapito della ricchezza biologista, di una conoscenza cerebrale senza alcun dubbio riduttiva. Abbiamo assistito tutti allo spostamento sull’uso degli psicofarmaci, in genere, senza che questo uso abbia di fatto apportato ad un miglioramento e ad un benessere collettivo e individuale.

I vuoti di cura non farmacologica nei servizi di salute mentale, di psicoterapia, di sostegno psicologico e sociale, di attenzione al contesto, di aiuto allargato, di intervento sui bisogni primari, di attivazione di risorse personali, di facilitazioni particolari, di concretezze quotidiane, di attivazione di risorse familiari e di gruppo, eccetera, tutto questo non coltivato nei servizi di salute mentale che va sotto il nome di psico-sociale è stato riempito, col rischio di saturazione completa, dalla presenza degli psichiatri e dal loro modello medico di impostare la cura. Qualche psichiatra, poi, come può accadere nelle situazioni di necessità d’intervento in contesti poveri, ha assunto caratterizzazioni personalistiche nello stretto ambito della stanza del suo studio, andando a vicariare qualcosa di più importante col solo gesto prescrittivo.

Dopo i decenni in cui questo riduzionismo bio medico ha preso piede e dimenticato le vastità basagliane, ritenere che in una crisi psicotica, in una break down giovanile, in una condotta antisociale, in uno tsunami familiare per l’irrompere di uno scompenso psichico di un genitore o di un figlio, ci possa essere un germe trasformativo, una qualche risorsa, suona come una bestemmia, si o no?

Questo mi sono detto pensando agli ultimi anni di lavoro. Certamente ho contribuito anch’io a non dare spazio a quello che adesso chiamerei semplicemente scoprire le risorse trasformative che una persona può avere in sé e coltivarle, nutrirle, accoglierle. Magari germinano dopo, più tardi, ma bisogna che il terapeuta le pensi, dia spazio, ossigeno, richieda aria.

Per far questo lavoro terapeutico evolutivo abbiamo bisogno, la salute mentale ha bisogno, di figure vicine a chi soffre, certamente i familiari, gli ESP, ma tutti quelli che possono in un qualche modo essere utili. Non solo per un senso di collettività che so che piace agli autori, ma anche per la necessaria indagine su quali possano essere le vie preferenziali, le scorciatoie, le immediatezze benefiche di ogni persona, di ogni paziente. In questo lavoro che definirei diagnostico, nel senso riabilitativo ispirato alla recovery, è necessario l’apporto di chi è attorno, di chi conosce, di chi ha costruito affetti, legami, di chi ha condiviso sogni, di chi c’era.

Si tratta di scavare, come archeologi, di svelare qualcosa che la sofferenza tende a nascondere, di cercare entro le pieghe che l’alterazione mentale vuole scartare, eludere. Il percorso di cura condiviso è poi l’approdo concreto di questo lavoro necessario che poi deve per forza proseguire assieme. Per costruire, come architetti, muratori, disegnatori, arredatori concreti di una dimora.

Diego Silvestri – psichiatra

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